Pittura analitica, origini e continuità
Un rassicurante tepore cromatico avvolge lo sguardo che, libero di spaziare, si adagia su tele dall’aspetto apparentemente impenetrabile. Materie lente e organizzate, tratti esigui dal tocco diafano che emergono come emblema fisico del rapporto tra segno e razionalità. Un esercizio pittorico controllato e caratterizzato da un’intima prestanza, in cui delicatezze e meditazioni si compongono nello spazio fisico del quadro. I materiali impiegati sono artigianali e grezzi nella loro più pura concezione pratica, “elementi minimi” (come Claudio Verna dichiara); autentici fondamenti quali pennello, luce, superficie, pittura (talvolta vernice da imbianchino stesa con rulli), a testimonianza di un gesto sincero che non intende regredire, ma ristabilire l’importanza dell’atto pittorico, mantenendo caratteristiche peculiari depurate da astrazioni. Preservare questa pratica, e più nello specifico il ruolo del pittore, è quello che negli anni Settanta decanta la Pittura Analitica, pur non ammettendo inflessibili definizioni. Si tratta di un accadimento, una riprova della sua sussistenza nel momento del suo attuarsi, lungi da ideazioni scientifiche, affine invece a riflessioni scandite da gesti.